È il 9 aprile 1661, una bella mattina, anche se a Leida, in Olanda, fa piuttosto freddo, per quanto il mare non sia molto distante. Ci avviamo verso l’università, la più antica del paese essendo stata fondata nel 1575. Qui, a soli 44 anni, nel 1658, un giovane ricercatore, Franciscus de la Boë, Sylvius per gli amici, ha conquistato la cattedra di medicina, dopo un brillante dottorato ottenuto a Basilea nel 1637. Lo andiamo a trovare, non perché stiamo male, bensì perché lui passa per l’inventore del gin. Ci riceve in laboratorio, un ambiente ordinato affollato di storte e palloni. Non mancano neppure un paio di alambicchi in rame. Per quanto sia evidente che ama tanto la tavola quanto la posizione, risponde volentieri alle nostre domande, non senza scaldarsi un po’, perché il gin gli sta davvero a cuore.
Scusi professore, ha visto che bel successo ha avuto il gin in Italia?
Senta giovanotto, se è venuto qui con l’idea di provocare potrebbe trovarsi di meglio da fare. Ma le pare che i grappaioli italiani debbano dedicarsi al gin? Secondo me hanno preso un colpo di sole. Finalmente avevano dato una vera svolta alla produzione della grappa conducendo bene la fermentazione delle bucce degli acini d’uva, recuperando il meglio della tecnologia distillatoria, affinando in modo mirabile in legno e poi mollano tutto e si mettono a fare infusi con officinali? Ma le pare sensato? Senza contare che io il gin l’ho fatto con le bacche di ginepro a ragion veduta, per creare una medicina utile a quanti hanno problemi di reni e annessi, mentre loro ci mettono dentro di tutto dandosi solo delle arie. E sa, per farlo, come chiamano i principi officinali? Li chiamano “botaniche”, traduzione barbara dall’inglese.
Chiara la sua posizione, ma allora che debbono fare gli italiani visto che il gin tira e la grappa no?
In realtà la loro acquavite alle erbe ce l’hanno da sempre, solo che non hanno cervello per nobilitarla, come di loro abitudine vivono nell’individualismo e copiano i successi degli altri invece di generarne di propri. Sono passati quasi 200 anni da quando il Michele Savonarola, professore all’Università di Padova, ha fatto lavori egregi sull’argomento, poi proseguiti dal compianto Pierandrea Mattioli che divise la sua vita tra Gorizia e Trento. Certo, non è che chiamarle “grappe aromatizzate” faccia figo, ma il nome si può reimpostare, i quarti di nobiltà a queste acqueviti non mancano di certo. Basta che non le chiamino grappe botaniche. Oddio, cosa ho fatto, magari qualcuno mi legge e domani mattina esce la prima.
E secondo lei andrebbero bene anche nel bere miscelato?
Ma certamente. Fare grappa neutra per venderla nei cocktail non ha mai funzionato, perché una base alcolica che non apporti nulla oltre all’etanolo si può trovare a costi ben più bassi. Mentre in Italia ogni distilleria vive in un territorio dove si trovano officinali fantastiche, perché la ricchezza di oli essenziali aumenta con la luminosità e il delta termico. L’Italia ha un patrimonio inestimabile che non sfrutta. Pensi che io stesso quando posso mi faccio mandare erbe dall’Italia. Quindi sensorialmente potrebbero nascere bevande eccellenti sotto il profilo sensoriale e con una narrazione capace di toccare il cuore della gente.
Luigi Odello
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