Già nei manuali dell’Ottocento si faceva un gran disquisire sull’uso del calore per rendere più veloce l’invecchiamento della grappa, in abbinamento o meno all’uso di trucioli e all’incremento di ossigeno, anche a costo di perdere un po’ di alcol, la cosa più preziosa per l’epoca. Ma, a ragion veduta, i puristi non vedevano la questione di buon occhio, come pure l’aggiunta di caramello per fare in modo che l’occhio inganni l’olfatto: più è scura, più è vecchia e più è pregiata. Si giunse a un punto in cui la tendenza fu invertita e anche altre acqueviti si fecero pallide comunicando “colore chiaro, gusto pulito”. Era l’epoca del light, gli anni Ottanta, quando nove bottiglie su dieci della nostra acquavite di bandiera erano di grappa giovane. Poi la tendenza si invertì a favore delle invecchiate. Questo fu grazie a una nuova perizia nell’elevazione in legno con la creazione di eccellenze di cui godiamo ancora a … pieni calici.
Oggi però arriva un brevetto dagli Stati Uniti che propone di accelerare la maturazione in legno mediante l’abbinamento del calore con luce attinica, promettendo grandi risultati senza ledere alla qualità sensoriale. Che i raggi ultravioletti abbiano azione su diversi componenti non è cosa nuova, che il calore sia un acceleratore del processo neppure, ma nutriamo qualche dubbio che i risultati sensoriali siano i medesimi. E poi: c’è davvero bisogno di forzare un processo a spese dell’autenticità e della narrazione?
Luigi Odello
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