Se un seme di uva cade vicino alla pianta madre muore. La vite ha dunque dovuto ingegnarsi a trovare degli alleati per portare lontani i suoi semi in modo da propagare la specie. E l’ha fatto in modo mirabile: colorando gli acini e, soprattutto, sintetizzando particolari molecole in grado di attirare gli esponenti del regno animale, homo sapiens non escluso. Anzi, è proprio grazie a questa sublime caratteristica che l’umanità ha cominciato a prestare grande attenzione alla vite, fino ad arrivare a fare il vino e le acqueviti in cui l’alcol non solo partecipa al benessere con il suo effetto rilassante e disinibente, ma enfatizza il quadro aromatico formato dagli aromi dell’uva, da quelli della fermentazione alcolica e, eventualmente, dall’affinamento in legno.
Qui giunge opportuna una riflessione: parlando di materia prima per la produzione di acquavite, la quantità di aromi primari è crescente passando dal seme (whisky), al fusto (rum), al fiore (alcune acqueviti indiane), al frutto (brandy, grappa, acqueviti di frutta). Ecco perché alcune acqueviti sono perfette anche senza elevazione in legno, mentre altre la necessitano. Non solo, la quantità degli aromi primari sarà tanto maggiore a seconda della parte dell’acino che viene utilizzato e dalla varietà di vite impiegata: nel succo della vitis vinifera di aromi ce ne sono pochi, è la buccia il magazzino deputato alla loro conservazione, perché è a contatto con l’ambiente e li può liberare. Il brandy, normalmente ottenuto con vino proveniente da uve neutre o quasi, non ha grandi chance per quanto riguarda i primari. C’è, è vero, il caso del pisco peruviano, un distillato di vino che non viene assolutamte invecchiato proprio per mantenere integro il proprio patrimonio di aromi, ma questo nasce in genere da uve aromatiche o semiaromatiche le cui parti solide hanno una macerazione più o meno lunga con il vino.
Comunque le acqueviti che meglio portano alla ribalta il patrimonio aromatico dell’uva sono quelle di vinaccia. Quindi non solo la grappa, ma anche l’eau de vie de marc, l’aguardiente de orujo e la bagaceira, solo per parlare di alcune. Tra tutte la più fortunata è sicuramente la grappa. Lo diciamo senza ombra di sciovinismo, in considerazione di due fattori. Primo: il patrimonio ampelografico italiano è di una vastità incredibile e le varietà a frutto aromatico o semiaromatico sono moltissime. Secondo: gli italiani hanno saputo mettere a punto mirabili tecnologie per preservare l’integrità degli aromi in fase di fermentazione della vinaccia e della distillazione.
È quindi l’ingegno umano che, in definitiva, dà il volto alla grappa mantenendo in essa il riflesso del territorio: ecco l’autenticità.
Luigi Odello
Presidente – Centro Studi Assaggiatori
Professore di Analisi sensoriale alle Università di Verona, Udine e Cattolica di Piacenza
presidenza@assaggiatori.com
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