L’idea di utilizzare la grappa come ingrediente da cocktail solleva più interrogativi che certezze tra i produttori. Alcuni la considerano una strada promettente, soprattutto per avvicinare un pubblico giovane o incuriosito dalle nuove tendenze della mixology. Viene vista come un’opportunità per rilanciare il distillato italiano per eccellenza in una chiave più moderna, magari entrando nelle carte dei bar internazionali o conquistando l’attenzione di barman creativi.
Altri invece restano scettici, evidenziando limiti tecnici e culturali. La grappa, dicono, ha una struttura aromatica troppo potente, poco adatta a lasciarsi addomesticare in miscele raffinate. L’alcolicità elevata, il carattere marcato, la varietà espressiva che cambia da vitigno a vitigno la rendono un ingrediente complesso, difficile da bilanciare senza snaturarne l’identità. Per qualcuno usarla nei cocktail è addirittura un rischio, un modo per perdere di vista la purezza del distillato in favore di una moda passeggera.
Eppure, anche i più puristi ammettono che la grappa in miscelazione può avere un senso, a patto che non si perda il rispetto per la sua anima. L’idea che un cocktail ben fatto possa essere la porta d’ingresso per poi scoprire la grappa in purezza è condivisa da molti. È un ponte, non un punto d’arrivo. Ma per costruirlo servono competenze specifiche, formazione dei bartender, una narrazione coerente e una visione strategica.
Tra prudenza e speranza, la grappa guarda al bicchiere miscelato come a un possibile alleato. Non per snaturarsi, ma per riscriversi con linguaggi nuovi.
Luigi Odello
Elia Mendeni
Contenuto redatto con supporto di IA