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Giuseppe Versini: chimica alleata della grappa, ma non senza il controllo di filiera

Giuseppe Versini è stato responsabile per molti anni del laboratorio di analisi e ricerche dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Appassionato di grappa, nella sua attività durata oltre trent’anni ha studiato a fondo la sua composizione, sino a diventarne un riferimento in materia. Oggi è consigliere dell’Istituto Nazionale Grappa, nonché responsabile scientifico dello stesso.

È possibile attraverso analisi chimiche tracciare la carta d’identità di una grappa?

Il profilo analitico permette di caratterizzare ciascuna grappa. Il problema è di carattere interpretativo: una volta che l’analisi ha fornito un quadro della situazione, oggi molto dettagliato, bisogna saperlo leggere. Con la conoscenza dei percorsi biologici e distillatori ormai siamo in grado di farlo con grande accuratezza. Si può capire, per esempio, che tipo di vinaccia è stata utilizzata per produrre una determinata grappa e il suo stato di conservazione. Analizzando i livelli di alcuni componenti è possibile anche definire e quindi discriminare fra i vari tipi di distillazione utilizzata, arrivando a cogliere anche i dettagli sulla conduzione. Così le grappe distillate con metodo bagnomaria, pur in un’accentuata omogeneità di profilo, sono distinguibili da altre ottenute con metodi diversi. In generale si può affermare che ogni azienda ha un profilo compositivo diverso da quello delle altre.

I monovitigni sono veramente diversi tra loro o si tratta di una semplice differenziazione di carattere commerciale?

Se dicessimo che i monovitigni sono tra loro tutti distinguibili, cioè se affermassimo che presentano specificità che li caratterizzano gli uni dagli altri in modo univoco e certo, diremmo una falsità. Possiamo però affermare che almeno una metà dei vitigni utilizzati nella grappa hanno caratteristiche distintive, cioè che sono effettivamente differenti anche da un punto di vista chimico nel distillato. Caso lampante e chiaro sono i vitigni aromatici e quelli semiaromatici a cui si aggiungono altri ad aroma specifico. Bisogna anche dire che il campo di ricerca è tuttora alquanto aperto perché di molti vitigni minoritari sono ancora da studiare i riflessi sul distillato. La risposta potrà essere più precisa mano a mano che procederemo con la ricerca e si puntualizzeranno le categorie di composti volatili tipici, così come si sta ancora facendo sui vini, e quando si indagherà più a fondo il ruolo che hanno i supporti della distillazione, in particolare la colonna e le sue condizioni operative.

La chimica è spesso usata nei cibi e nelle bevande per verificare sofisticazioni e tutelare il consumatore. Qual è l’apporto che può dare alla grappa?

Grazie soprattutto alla gascromatografia siamo in grado di fotografare il prodotto e di evidenziare con certezza se ci sono sostanze che non ci dovrebbero essere o comunque che dovrebbero essere presenti in quantità differenti da quelle rilevate. Oppure evidenziare che si tratta di sostanze di sintesi e non di prodotti naturali. Mi spiego: se dai dati emergono dei picchi anomali, questi sono originati da componenti che non derivano dall’uva o da un processo di produzione naturale. Si tratta di sostanze aggiunte successivamente per apportare aromi specifici inusuali nell’uva, e quindi nella grappa, o per rinforzare la presenza di alcuni aromi nel quadro aromatico tipico, quindi per ingannare comunque il nostro olfatto. Siamo perciò di fronte a delle sofisticazioni.
Possiamo, per esempio, evidenziare quando la grappa è aromatizzata con un sentore di frutto particolare. Oppure se in una grappa di Moscato il livello di linalolo, l’aroma principale, è al di là di quanto normalmente si osserva, o in un rapporto inusuale con altre sostanze tipiche. E possiamo capire se è di origine naturale o deriva da una sintesi di laboratorio. Se quantità, rapporti e aspetti di naturalità non corrispondono, ciò significa che si è intervenuti per aumentare artificiosamente il sentore di floreale.
Si può controllare con metodi chimico-fisici e chimici anche il reale livello di invecchiamento del prodotto in legno o non, e pure una datazione effettiva se supera almeno cinque anni. Ci si basa soprattutto su “traccianti”, sia su sostanze derivanti dalla cessione del legno alla grappa e su loro rapporti che sulla misura della radioattività al carbonio 14 dell’alcol. Si può inoltre misurare il livello di alcuni isotopi stabili nell’alcol per stabilire la zona di origine dell’uva e talora anche l’annata come si fa sui vini.
Come si vede è possibile avere una vera e propria radiografia dell’aroma varietale e fermentativo, del sistema e metodo di distillazione, del tipo di vinaccia e del luogo di origine. Tutto questo per garantire la genuinità della grappa.

Quindi la chimica a difesa della grappa di qualità, o no?

Certamente sì, ma sarebbe un errore delegare il controllo della qualità e la tutela del prodotto ai tecnici di laboratorio. Questi possono utilmente intervenire dai casi più semplici a quelli più complessi o controversi. Ma la difesa della qualità del prodotto parte prima di tutto da una filiera che si autocontrolla, dall’etica e dal senso di responsabilità dei distillatori.

Quali sono le frontiere della chimica applicata alla grappa?

Molto è stato fatto e molto si può ancora fare. Un aspetto interessante riguarderà certamente altri campi della sofisticazione, per esempio la verifica di eventuali illecite aggiunte di alcol buongusto, anche vinico, alla grappa. Si potrà studiare ancora con maggiore precisione l’origine zonale e naturale e i rapporti tra vari composti (nel whisky già da tempo si stanno studiando i tenori relativi e livelli isotopici dei vari componenti rispetto all’alcool). Si potrà anche lavorare maggiormente sui markers dei sistemi di distillazione e dell’origine geografica per valorizzarli specificamente.
Senza dimenticare tutto l’aspetto delle possibili relazioni tra chimica e sensorialità. Oggi sappiamo collegare con certezza alcuni composti o gruppi di essi ad alcune sensazioni olfattive positive e negative rilevate dagli assaggiatori. Sappiamo definire, fra le cause di caratteristiche negative, per esempio, composti solforati responsabili di quegli odori che gli esperti percepiscono come paglia bruciata o crauti. C’è ancora comunque ancora molto da indagare su altre relazioni: questa è una frontiera certamente molto interessante.

Carlo Odello

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